E il grano è sempre macinato...

L'intervista di Anna Przewoźnik con Andrzej Kalinowski
Prześwit n. 2(6)/2004

2018-04-24 23:40:56

ANNA PRZEWOŹNIK: - Sentendo oggi la parola "Betel", come sono i tuoi primi pensieri e associazioni?

ANDRZEJ KALINOWSKI: - Ci sono le parole che, benché sfiorano i miei orecchi, indirizzano il pensiero sull'esistenza di un ordine di valori. È cosi anche quando sento la parola "Betel". Quasi automaticamente tiro allora le bretelle, abbottono il colletto sotto il collo e pulisco il naso con un fazzoletto. La parola mi richiama subito all'ordine. Solo allora so cosa è cosa, come si chiama e dove cercarla. È per me una parola molto preziosa perché determinativa di una direzione di pensare, di agire. Mostra i veri valori e la vera armonia che perdo così spesso in tutte queste faccende quotidiane irriflessive. Questa parola è una sfida che potenzia le mie sensibilità e vigilanza. Oggi, davanti a questa parola, enunciata da tanti, spesso, purtroppo, mi vergogno, inclino la testa e mi inginocchio con umiltà.

- Dici che "Betel" è una storia ricca i cui inizi risalgono agli anni 90. Secondo te, è già o è solo una tale storia?

- Penso che lo è già, perché ci sono dentro tante esperienze, tanti slanci e tante cadute, tanti eventi svariati... Siamo riusciti a resistere, a seminare qualcosa. Ma chissà se questo crescerà in noi? Ed allora lo è solo perché c'è ancora tanto che ci aspetta, così tante sfide. La vita spinge in avanti - così sono le vicissitudini delle cose. Prendiamo l'involto di esperienze sulle spalle e andiamo sempre avanti. Ogni fermata ed ogni sguardo indietro porta il rischio di stupefazione, dunque bisogna essere cauti. Quello che è il passato, quello che ci aspetta e quello che sperimentiamo ora deve essere raccolto in un pugno solo. E avanti! Perché soltanto così c'è la speranza di crescere.

- Allora, come era una volta, e come è oggi?

- Se guardiamo "Betel" come organizzazione, in effetti, è diverso. Perché ci sono più comunità, altra portata, altre strutture ecc. Ma se guardiamo quello che "Betel" comporta, è sempre la stessa cosa. I poveri sono sempre poveri, la debolezza è sempre debolezza nella quale la forza continua a perfezionarsi - niente è cambiato. Il messaggio è sempre medesimo. Le carte del Vangelo, dove passeggia il Cristo, debole e nello stesso tempo forte, non hanno sbiadito. Le stesse lotte e le stesse sfide. Cambia solo la materia. Ma è questa la più importante?

- Ti fai la domanda se state andando nella buona direzione? Te la fai spesso?

- Tali domande sono fatte molto spesso, magari non tanto sulla direzione quanto sul senso delle attività intraprese. Poiché l'uomo è debole, suscettibile ad essere ferito, specialmente quando si tratta di persone deboli. Qualche volta è molto dura, "le pile" si possono scaricare. Questo è momentaneo, ma molto difficile e pericoloso. Di più, l'uomo è un essere che continuamente sente la nostalgia, cerca, è sempre insaziabile. Spesso fugge la realtà che lo circonda perché essa richiede troppo. Per questo succede che ci creiamo un'illusione - un mondo irreale dove tutto è bello perché noi non ci siamo fino al fondo. Paradossalmente, spesso sono delle persone handicappate che aiutano ad uscire di tale stato. Perché soltanto scoprendo le proprie debolezze essendo confrontati alle debolezze di altrui si può veramente crescere.

- Che cosa è il più necessario per seguire la strada di Betel?

- Affiggere il Cristo. Senz'altro. E per gli atei o persone di altre confessioni - credere che la cosa più importante nella vita è l'amore. Penso che questo sia il punto di partenza. Soltanto allora si può seguire questa strada. Non è però una strada facile. Quando decidiamo di seguirla, contemporaneamente decidiamo di vivere scomodità e calli sanguinosi. Credo però che nonostante le fatiche e le conseguenze subite della marcia intrapresa - così come in ogni pellegrinaggio - l'arrivo al santuario che è lo scopo della nostra gita, sarà l'esplosione della gioia interna e della piena crescita. Camminare lungo questa strada richiede però il coraggio, un grande spirito di sacrificio e una forza d'animo.

- Non ti piace tornare indietro, dunque non parleremo troppo di quello che era. Di' soltanto, come mai è nato un Movimento di queste dimensioni?

- Non c'erano grandi premesse. Non c'erano neanche grandi slogan. Sono apparsi più tardi. Allora nessuno pensava a tutta una serie di comunità, alle case né a tutto quello che abbiamo oggi. Un passo fatto fa fare il passo successivo. E così è nato tutto. La ruota di mulino è stata avviata, e poi tutto è stato portato dall'acqua... La macchina è partita in avanti. I fornitori aumentavano e il grano continuava ad essere macinato. Quando è stata fondata una casa per gli handicappati, presto la ragione ordinava fondarne un'altra. È stato così con tutte le attività, la semplice conseguenza. Niente di più. Passo per passo - sempre però in avanti. Per sopravvivere, bisogna generare in continuazione. Per questo, ogni comunità sana genera comunità successive. Perché quando è chiusa esclusivamente su sé stessa, muore. Tutto si fa in modo naturale; non c'è niente di forzato. L'istinto, la logica che fa andare oltre.

- Si può dire che le case famiglia per persone handicappate sono il cuore di "Betel"?

- Il Cuore di "Betel" è la persona debole e povera, nella quale scorgiamo Gesù Cristo stesso. Ma guardando "Betel" come un Movimento dotato di certe strutture, si può usare una tale definizione. Le case che gestiamo sono il cuore di questo Movimento, perché ci vivono delle persone non gradite, ma più vicine a Dio e a tutti i veri sentimenti.

- Spesso si sente che "Betel" partecipa nella creazione della civilizzazione dell'amore. E Tu come percepisci l'amore?

- "Betel" è per me un supporto creativo della civilizzazione dell'amore, un paradossale scaricamento delle tensioni della nostra società. Penso che l'esistenza della debolezza nella nostra vita non è casuale, ha un ruolo da adempiere. Ma dobbiamo riscoprirlo continuamente. La debolezza fa l'uomo diventare forte, lo rende un vero essere umano. La debolezza fa l'uomo assomigliare a Dio. La debolezza, infine, fa scoprire il vero amore. E l'amore è nient'altro che l'adorazione nella debolezza e vicino alla debolezza. Evidentemente, è anche la responsabilità, l'accompagnamento, la capacità di condividere, e soprattutto morire per l'altrui. È certamente una realtà brutta, così come il colore dello straccio o l'odore di pannolino. Perché l'amore è ordinaria, e straordinari sono i nostri atti di meretricio. Certamente, l'amore non è una costanza ma il diventare continuo, la sfida incessante e il lavoro.

- Questo amore si propaga più lontano, fuori dai confini della Polonia. Si pone la domanda: perché proprio là? Perché la Bielorussia e la cooperazione con l'Italia? In Polonia i bisogni sono pochi?

- Non è così. Non è la voglia di conquistare il mondo, anche se ogni tanto può sembrare così. Intraprendiamo sempre le attività che ci porta il destino. Il più spesso arriviamo lontano per l'amicizia. Capitano però anche le situazioni che si presentano da sole. Così è stato il caso dell'Italia e dell'Ucraina. Qualcuno viene con una proposta o chiede aiuto. E poi, bisogna solo trovare soluzioni e risolvere problemi. Con la stessa conseguenza, le stesse attività. Il parallelismo secondario, niente di più.

- Vale la pena di convincere che tale strada è giusta?

- Per me, non si tratta di convincere. Non ho bisogno di convertire nessuno. Direi piuttosto che è il bisogno di parlare del Cristo, dell'amore, della speranza e della liberazione che la debolezza comporta.

- Grazie mille per la conversazione.

Con Andrzej Kalinowski, il fondatore del movimento "Betel", ha parlato Anna Przewoźnik.

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